I greti del Ticino erano fino a pochi decenni fa territorio di caccia dei cercatori d'oro. Oggi solo pochi nostalgici continuano a percorrere i greti con l'asse e gli altri attrezzi della cerca dell'oro.
Lo sfruttamento delle sabbie aurifere nei fiumi della Valle Padana, risale certamente ad epoche precedenti la conquista romana. Per quanto riguarda il Ticino bisogna arrivare fino al 1184 per trovare documentazione scritta, ossia un editto imperiale di Federico Barbarossa che concede ai fratelli De'Biffignardi il diritto di cavare oro dai greti del fiume in territorio di Vigevano e di Abbiategrasso.
Le concessioni per la cerca passano di mano in mano tra feudatari ed ecclesiastici fino al secolo scorso, quando i greti di tutti i fiumi italiani diventano proprietà del Demanio. Da quel momento in poi è il Genio Civile ad assegnare la licenza di "pesca dell'oro" ai richiedenti, su pagamento di una piccola somma annuale.
L'oro del Ticino giace sedimentato in depositi alluvionali, profondamente terrazzati, che affiorano lungo le sue rive una decina di chilometri a valle della sua origine dal Lago Maggiore. Esso venne depositato qui durante la lenta retrazione dei ghiacciai dell'era quaternaria, che modellò le cerchie moreniche dei laghi prealpini. Aprendosi un varco in questi depositi, il fiume li erode e li trascina a valle dove essi sedimentano durante le piene. Tale deposizione avviene preferenzialmente in certi punti dei greti, le cosiddette "penisole di magra", dove la corrente perde velocità per l'attrito sui bassi fondali. Passata la piena il greto emerge e su di esso un occhio esperto può distinguere depositi di "sabbie scure", ricche di metalli (non solo oro).
Trovato il punto, i cercatori estraggono la sabbia setacciandola per separarla dalla ghiaia e la trasportano sul bordo dell'acqua, dove si costruisce una presa di corrente con due file di ciottoli disposte ad imbuto. Sotto di questa si posa l'asse, facendoci scorrere un flusso d'acqua continuo e privo di turbolenze dello spessore di qualche centimetro. Gettando sull'asse palate di sabbia, le pagliuzze metalliche si depositano nelle scanalature della sua superficie, ortogonali rispetto alla corrente che trascina via gli elementi leggeri.
Al termine della giornata il materiale raccoltosi nelle scanalature viene versato nella "trula", attrezzo tipico dei cercatori oleggesi che ha la forma di un badile quadrato con sponde. Per mezzo di ripetuti movimenti di rotazione si ottiene la separazione delle pagliuzze d'oro da quelle di metalli di densità differente. L'ultima delicata fase di ripulitura viene eseguita dal cercatore più' anziano ed esperto, versando sul materiale un getto d'acqua da un beccuccio ed imprimendo alla trula le ultime delicate rotazioni. Infine, a materiale asciutto, una calamita serve ad eliminare le ultime impurità ferrose. Il metodo tradizionale ottiene oro di straordinaria purezza, assai ricercato dagli orefici.
Una giornata di lavoro era dalle 4 di mattina alle 9 di sera, ma se era una giornata buona se ne trovava 10 o 15 grammi a testa.
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